#Stopstereotipi per il Bene Comune
#stopstereotipi; #paritàdigenere; #pugliapartecipa; #educazione; #formazione; #letteraturainfanzia; Un Patto della e con la comunità per l'eliminazione degli stereotipi di genere
Il caso: Armine Harutyunyan, da una classifica mai stilata all’irrefrenabile necessità di etichettare gli esseri umani
Il suo viso rimbalza di bacheca social in bacheca social da giorni, da Facebook a Instagram, passando per Twitter. È diventata il centro delle riflessioni di tutta Italia, da chi discorre sui nuovi canoni di bellezza a chi si indigna per un nuovo caso di cyber bullismo.
Armine Harutyunyan, 23enne di origine armena, è un’illustratrice ed è rea, agli occhi di tanti, di essere stata scelta da Gucci per i suoi tratti particolari: occhi grandi, sopracciglia folte, viso ovale. Definita dal fotografo Oliviero Toscani come “un volto interessantissimo, esprime una forma di intelligenza. Non è una barbie doll, non è un oggettino. È una bellezza molto più complessa".
Sarà la complessità il problema? Forse. Sicuramente alla base della baraonda mediatica in cui si è trovata la ragazza nell’ultima settimana c’è una fake news, o, meglio, una notizia mai confermata secondo la quale Gucci, dopo averla scelta per un intrigante spettacolo di apertura della Milano Fashion Week 2019, l’avrebbe inserita nella classifica delle modelle più sexy al mondo. Nessuno finora è riuscito a confermare la fonte della notizia, il che la rende inesistente, ma sta di fatto che il caso di body shaming che si è creato intorno alla modella è alla luce del sole, o degli schermi di cellulari e computer, e non può in alcun modo essere giustificato.
L’era dei Social Networks ci ha elevato tutti a giudici, quindi nessuno si è trattenuto dal dire la sua riguardo la desiderabilità sessuale o il rispetto delle definizione stereotipiche di “modella” e di bellezza, senza trattenersi dall’offesa, dalla minaccia e dalle volgarità gratuite.
Armine ha scelto di non rispondere alle provocazioni con un post social, come molti si aspettano, ed intervistata da Repubblica ha sottolineato come non riesca a capire perché in Italia ci si stia soffermando tanto sulla sua figura, aggiungendo «è un problema loro, non mio. Io sono più di una faccia e non ho tempo di farmi abbattere».
C’è però tanto da riflettere perché nell’era in cui tanti si fregiano di una grande apertura mentale, in cui la strada sembra essere quella della diversità nel concetto di bellezza, della demolizione dei canoni imposti, eccoci qui. A fermare le nostre vite per inveire contro una donna che abbiamo deciso di definire, sia chi dice “bella” che chi dice, in maniera più o meno colorita, “brutta”. Ci si sta, quindi, consumando le meningi per imporre una delle due etichette o per darle l’onore (?) di essere inserita in una lista scritta da qualcuno che ha deciso delle regole, dei punteggi, dei canoni, appunto.
Ci chiediamo, allora, dove siamo arrivati nel processo di decostruzione degli stereotipi di bellezza? C’è da pensare che non siamo neanche partiti. Già l’esistenza di una lista (e ce ne sono tante) che proclami la desiderabilità di esseri umani o la feroce necessità di etichettare qualcuno con un aggettivo così semplicistico come “bello” o “brutto” ci dicono che i muri da abbattere sono molto alti e bisogna mettersi a lavoro in maniera più effettiva e meno di facciata, lavorando sull’educazione della comunità dentro e fuori dai Social. E, soprattutto, non c’è più tempo da perdere! L’esposizione delle nuove generazioni a queste feroci campagne denigratorie ha un costo pedagogico e psicologico incalcolabile in quanto si tramuta facilmente, nella quotidianità, nella legittimazione di comportamenti di bullismo, body shaming e violenza psicologica.
È un costo che ci possiamo permettere?